I «Saggi» di Marpicati (1934)

Recensione a Arturo Marpicati, Saggi di letteratura (Firenze, Le Monnier, 1933), «Il Campano», a. X, n. 1, Pisa, febbraio 1934, pp. 27-28.

I «Saggi» di Marpicati

Il libro che abbiamo dinnanzi riassume tutta la notevole attività critica di Arturo Marpicati, un’attività iniziatasi nell’immediato anteguerra con saggi di carattere accademico e culturale e svoltasi poi con larga umanità di problemi e con interessi non limitati al solo campo estetico. Basta accennare al titolo di qualcuno di questi saggi per comprendere l’indole critica dell’autore: Dante, forza nazionale, Umanità del Petrarca, Alessandro Manzoni e l’Unità d’Italia, La terra e la famiglia nella poesia del Parini, come d’altra parte la scelta degli scrittori in esame è indice degli interessi del Marpicati che noi conosciamo soprattutto quale uomo di lotta politica, di attività svolta a favore della patria. Naturalmente a volte il predominio delle esigenze non strettamente critiche mette nei suoi saggi un certo sapore di provvisorio e di propagandistico, ma è anche proprio questo lato umano del Marpicati a dare il calore vitale che circola in tutti i suoi studi. Cosí se nel saggio su Virgilio (letto del resto come conferenza per il bimillenario virgiliano) la visione è troppo unilaterale, accentuando solo il lato epico e di vate nazionale, nel saggio sul Parini la ricerca dei motivi di sanità morale nel poeta del Giorno conduce a dei risultati notevoli anche da un punto di vista estetico. È anche assai buona, sempre in seguito agli stessi criteri moralistici (senza dare a questo aggettivo il significato dispregiativo che di solito gli si accompagna) la distinzione fra gli umanisti che si contentavano delle glorie passate e si rifugiavano perciò nel mondo della cultura e il Petrarca che sentiva il problema nazionale come presente, come problema da viversi con tutta la propria forza spirituale.

È d’altra parte inevitabile che spessissimo il Marpicati sfoci senz’altro nella biografia degli autori che studia, avendo sempre di vista l’uomo da cui l’opera è nata ed essendo trascinato anche dalle sue qualità di prosatore originale: a volte il tono biografico si degrada quasi a tono di vita romanzata (come nel giovanile saggio su Paolo Diacono in cui non mancano titoletti di questo tipo: «Paolo Diacono e Adelperga», «Nella raffica», «Franca», «Alla corte di Carlo Magno», ma piú spesso finissimo gusto quasi di vignetta si libera in lui e dà indimenticabili ritratti; oppure il senso della dignità virile d’un autore lo esalta in una atmosfera di bell’entusiasmo! Parlando del Trissino dice: «Fu uomo terribilmente serio, ma buono: e tutto prese sul serio, la politica e gli studi sulla lingua, il rinnovamento dei generi letterari e gli omicron e gli omega, l’amicizia e l’amore». E nel breve profilo di Ugo Foscolo caratterizza il giovanissimo Bruto o l’esule di Londra con frasi fortemente concentrate svolgendo l’osservazione centrale che la vita del Foscolo «se non è austera come quella che si descrive di Dante, se non è materia esemplare per i moralisti, se è carica di debolezze e di peccati, è tuttavia densa, nelle sue manifestazioni maggiori, di un alto contenuto ideale».

Passando alla ampia parte dedicata ai contemporanei abbiamo subito diviso i saggi a carattere commemorativo, belle cose commosse e di un valore artistico intrinseco (l’ultimo poeta dell’Ottocento: Giuseppe Manni, Vamba, Giosuè Borsi, Mario Angheben, Virgilio Bondois, tutti suoi amici o compagni di fede) da quelli di spiccata tendenza critica. Tra questi sono equilibrate recensioni di libri scelti senza preconcetti (da Dux di Margherita Sarfatti a Rubè di Borgese o ad Angela di Fracchia) e qualche studio piú ampio su Pascoli, D’Annunzio, Pirandello.

Abbiamo notato nei brevi articoli recensivi soprattutto una qualità: alcuni giusti raffronti svolti con una solidità di argomenti convincentissimi: cosí parlando di quella finissima cosa che è il Glauco del Morselli il Marpicati trova nel mondo ristretto pastorale incarnato in Scilla («Né oro né bellezza fan reggia») una somiglianza con quello del vecchio ’Ntoni dei Malavoglia e paragona l’inutile tentativo di Glauco accanto a quello tanto meno epico di ’Ntoni giovane; e altrove parlando di Rubè del Borgese scorge una sottile parentela del protagonista con il Julien Sorel del Rouge et Noir di Stendhal.

Per il Pascoli mette in luce qualche aspetto poco studiato come quello dell’epigrafista, e questa rivalutazione delle epigrafi dettate dal poeta romagnolo suggerisce una piú larga osservazione che il Marpicati non sviluppa: cioè la completa coerenza del Pascoli in ogni sua manifestazione spirituale, l’unico tono di sí e no, di mitezza e insieme di profonda sensibilità sentimentale e artistica continuo in ogni suo scritto, sia nei canti eroici, sia nella poesia sua piú genuina, sia nelle sue lettere e nelle epigrafi.

Del mondo pirandelliano dà in una pagina chiarissima (questa chiarezza espositiva è una delle doti piú felici del Marpicati) i motivi dominanti intorno ai quali riannoda le analisi di tre fra i piú celebri drammi dello scrittore siciliano: Cosí è se vi pare, Due in una, Sei personaggi in cerca d’autore. L’osservazione che «Il Pirandello vero comincia là dove i mezzi scenici, anche piú potenti, anche piú nuovi (ad esempio i procedimenti impensati originalissimi dei Sei personaggi in cerca d’autore), terminano» e l’insistenza sulla incomunicabilità dei personaggi come suo potente motivo di tragicità sono prova della possibilità di comprensione totale dell’arte pirandelliana.

Ma le cose migliori del Marpicati si trovano nelle pagine dedicate al D’Annunzio, poeta cui affinità di ideali e spesso quasi amore di discepolo (vedere in proposito certe frasi dell’ultima parte della conferenza letta a Fiume su «Dante, forza nazionale», di pretta derivazione dannunziana) lo legano fortemente. Malgrado ciò la sua attitudine critica si mantiene aliena da eccessi d’entusiasmo e, se mette in rilievo la forza quasi di «dramatis persona» del paesaggio nella Figlia di Jorio, e rivaluta la liricità di molta parte della Francesca da Rimini, nota anche la scarsa vita drammatica della Gioconda, e afferma riguardo al libro d’Alcione che «Se l’esuberanza inesausta, senza riposo delle immagini finisce per abbacinare, la troppa musica distende l’animo, lo spiega, lo affatica, gli fa avvertire infine un senso di monotonia», e quanto all’uomo mostra molto scetticismo (per quanto osservi finemente che «i sensuali il piú spesso finiscono mistici oppure pessimisti») circa il valore degli ultimi suoi francescanesimi.

Volendo dare un giudizio conclusivo sul libro esaminato dobbiamo ammettere qualche scoria accanto ad ottimi saggi e calcare sul carattere prevalentemente morale della critica che noi sentiamo derivata piú da quella desanctisiana che non da quella crociana; carattere di cui l’autore del resto ha perfetta coscienza.

Il libro è quindi una testimonianza di uomo vivo all’ideale di nazione e fascismo piú che non di mero studioso, e noi non possiamo, se vogliamo comprenderlo appieno, prescindere da questa sua particolare impostazione.